Note di fotometria

Diverse sono le grandezze fisiche utilizzate in fotometria, quella parte della fisica che si occupa di misurare le caratteristiche di un fascio luminoso e dei suoi effetti sull’occhio umano.

flusso luminoso, (luminous flux) l’energia luminosa E emessa tutt’intorno da una sorgente luminosa primaria o secondaria (che riflette la luce proveniente da una sorgente primaria) nell’unità di tempo, la cui grandezza fisica è il lumen (simbolo lm). Come un flusso idrico in una condotta, anche il flusso luminoso è sempre lo stesso, ad 1 cm, ad 1m ad 1 km, come è sempre la stessa la portata d’acqua in una tubazione a qualunque distanza dalla pompa, a meno di perdite.
Una lampada a incandescenza quando è accesa assorbe una potenza elettrica espressa in watt che in piccola parte si trasforma in flusso luminoso, cioè in potenza visibile, mentre buona parte si converte in potenza nell’infrarosso che è invece una potenza non visibile, termica. Il rapporto lumen/watt rappresenta quindi l’efficienza della lampada, il suo rendimento luminoso, cioè quanto della potenza assorbita elettrica si trasforma in potenza luminosa.

illuminamento, (illuminance) quantitativo di flusso luminoso per ogni metro quadrato di superficie esposta, indicativo dell’effetto, percepito dalla nostra vista, prodotto da una sorgente di luce sulla superficie degli oggetti che ci circondano. La grandezza fisica corrispondente è il lux (simbolo lx) lux = lumen/m2. Così un ufficio luminoso ha un illuminamento di 400 lx; la luna piena produce un illuminamento di 0,5 lx; per le vie di uscita è norma un illuminamento minimo di 5 lx.
L’illuminamento è funzione inversa del quadrato della distanza, quindi una stessa fonte luminosa produce lux diversi su superfici a diverse distanze ed anche a distanze uguali da come il flusso si distribuisce nello spazio.

intensità luminosa, (luminous intensity) la quantità di energia emessa da una sorgente luminosa (flusso luminoso) nell’unità di tempo e in una data direzione e in un ben definito angolo solido Ω, misurato in steradianti (simbolo sr). La grandezza utilizzata è la candela (simbolo cd) che in origine corrispondeva all’intensità luminosa proprio di una candela: cd = lm/sr.
In generale una sorgente luminosa non irradia lo stesso flusso luminoso in tutte le direzioni: una lampadina a incandescenza o una fluorescente sono sorgenti che diffondono la luce in maniera più uniforme tutt’intorno (a meno di zone d’ombra dovute a schermi o altro). Per esse si impiega il lumen, ad esempio nel confrontare due lampadine diverse. Per un corpo illuminante, dalla lampada da scrivania a una piantana, da una lampada a incasso a un faro, le valutazioni luminose vengono fatte attraverso le curve fotometriche, rappresentative della distribuzione spaziale della luce emessa, che riportano le intensità luminose (espresse in candele) per ciascun angolo direttivo.

Luminanza, (luminance) o radianza luminosa di una sorgente, corrisponde alla sensazione di luminosità che si riceve da una sorgente luminosa primaria o, per riflessione, da una sorgente secondaria. L’unità di misura è la candela/metro quadro (cd/m²)

Note:
– L’angolo solido rappresenta la porzione di spazio tridimensionale tra il vertice di un solido (un cono o più in generale una piramide), in cui è posta la sorgente luminosa puntiforme, ed una superficie A distante r dal vertice. Si misura in steradianti (sr) e vale Ω = A/r2
Una sfera completa ha un valore di angolo solido = 4πr2/r2 = 4π = 12,5664 sr (dove 4πr2 è la superficie di una sfera)
1 sr è un cono di area = r2 .. Più in generale un cono con un angolo al vertice α ha un valore di steradianti di 2π[1-cos (α /2)]. Lo steradiante è analogo al radiante che quantifica gli angoli planari.

– la candela è definita (dal 1979) come l’intensità luminosa in una data direzione di una sorgente che emette radiazione monocromatica alla frequenza di 540×1012 Hz (lunghezza d’onda 555 nanometri) con intensità radiante in quella direzione di valore pari a 1/683 watt in un angolo solido di 1 steradiante, ovvero 0,001464 W/sr.
Tale definizione fa riferimento ad una precisa frequenza in quanto l’occhio umano ha una diversa risposta alla luce: la luce verde/gialla (intorno ai 550 nanometri) stimola maggiormente l’occhio rispetto alla luce blu o rossa di pari potenza.
la potenza radiante in watt (si tratta di energia al secondo, quindi flusso luminoso) è indicativa del rendimento di una lampadina a incandescenza (standard) che assorbe 1 w elettrico per fornire una modesta potenza luminosa di 1/683 watt. Il rimanente è calore. Un tempo, fino ai primi anni ’70 del ‘900, era uso nel parlato comune utilizzare la candela come equivalente del watt per le lampadine ad incandescenza. Capitava di sentir dire: il lampadario ha lampadine da 12 candele, equivalente (improprio) di lampadine da 12 watt.

Segnalamento marittimo – generalità

Il segnalamento marittimo è un insieme di strutture, dispositivi fissi e galleggianti, di simboli cartografici e relative norme, necessario a condurre una navigazione o un pilotaggio in sicurezza.
Nella lingua inglese è seamarks dove mark è segno, simbolo.

Gli elementi fisici di segnalamento, noti con l’acronimo AtoN ( Aids to Navigation) possono appartenere a uno o più dei seguenti gruppi:
segnali ottici:
faro (ing. lighthouse – fr. phare), il più antico ausilio alla navigazione costiera, è caratterizzato da una luce visibile ad almeno 10 miglia nautiche (reso possibile per l’altezza e la potenza della sorgente luminosa). Aiuto nell’atterraggio notturno, è punto cospicuo nella navigazione diurna. Con i progressi tecnologici molti fari hanno perso l’importanza che avevano fino alla fine del ‘900, ma rimangono utili ausili alla navigazione.
fanali, (ing. light -fr. feu) rappresentano una famiglia di dispositivi luminosi la cui luce è visibile a distanze inferiori alle 10 miglia (in realtà vi sono casi di fanali con portate anche uguali o superiori, ma la cui struttura o funzione non le identifica come fari), costituita da elementi fissi o galleggianti il cui scopo è segnalare le testate dei moli (il tipico fanale riportato nelle carte), l’imboccatura dei porti e dei canali, i pericoli e i limiti di navigazione, ecc. A tale definizione generica si affianca quella specifica per cui un fanale è un dispositivo luminoso usato per indicare le opere portuali, eretti sulle testate dei moli, rossi e verdi ovvero i dispositivi luminosi delle navi (fanali di navigazione).
I dispositivi appartenenti alla famiglia dei fanali sono:
boe, galleggianti tondeggianti ancorati al fondo (il termine deriverebbe dall’antico fr. boie, catena, l’elemento che ne consente l’ancoraggio). Essa compare per la prima volta in un documento scritto alla fine del ‘200 (Lo Compasso de Navigare -1296 di autore ignoto, il primo portolano ad oggi conosciuto), come ausilio alle navi che in fase di atterraggio a Siviglia, in Spagna, dovevano entrare nel fiume Guadalquivir. Già con il nuovo secolo gli Olandesi impiegavano boe colorate, costituite da barili vuoti e sigillati ancorati sul fondo, per facilitare il transito delle imbarcazioni lungo le acque interne. Le boe di minore dimensione, spesso a carattere provvisorio, stagionale, prendono il nome di gavitelli. I primi fanali luminosi compaiono agli inizi degli anni ’80 del XIX secolo per moli e segnalazione su acque interne.
mede, costruzioni di forma allungata, in genere di metallo, fissate su bassofondo, posizionate in corrispondenza di punti pericolosi alla navigazione, quali scogli affioranti o secche. A coppia sulla costa, la meda trova impiego come allineamento per passare in sicurezza tra pericoli o come base misurata. Un particolare tipo è la meda elastica, comparsa negli anni 70 del secolo scorso, capace di oscillare elasticamente se colpita da una unità galleggiante
dromi, segnali naturali (cime, monti) o piccole costruzioni in muratura di segnalamento diurno di colore bianco di varia forma ovvero pali piantati in acque ristrette, come le briccole della laguna veneta. Esistono anche dromi forniti di luce
battello fanale
, noto anche come nave faro (lightvessel o lightship) è una nave con funzione di faro, la prima delle quali fu l’inglese Nore ormeggiata nel 1731 alla foce del Tamigi. Attualmente sono pochissime le unità ancora in attività nel mondo sostituite da grandi boe, tecnologicamente avanzate e meno costose nella loro gestione e manutenzione.

Nella terminologia anglosassone si impiegano solo due termini distintivi: buoy per i dispositivi galleggianti e beacon per le mede e i dromi, quest’ultimi indicati come day beacon a sottolineare l’uso diurno.

segnali acustici, accompagnano o sostituiscono i segnali ottici nelle aree soggette a fenomeni naturali a visibilità ridotta. Storicamente nati prima di quelli luminosi per segnalare la loro presenza di notte (per altre informazioni ved. modulo didattico sui segnali acustici )
segnali radioelettrici, classe del segnalamento comprendente:
radiofari marittimi, il primo fu installato sul faro Le Stiff (isola di Ouessant nel Finistère) nel 1911 creato dal fisico e ingegnere francese André Blondel (1863-1938). Subito dopo fu installato un altro faro sull’isola de Sein di aiuto alle navi dirette a Brest. In ingl. e più in generale nei documenti e comunicazioni internazionali, sono noti come radiobeacon. I radiofari, la cui idea originaria si fa risalire a Marconi negli anni ’20 del secolo scorso, emettono su una determinata frequenza un segnale identificativo radio omnidirezionale (detti pertanto NDB – Not Directional Beacon) in codice Morse la cui direzione può essere rilevata tramite un apparato radiogoniometrico (una tecnologia ormai superata). Attualmente sono pochissimi i radiofari marittimi in funzione (alcuni sono stati convertiti in trasmettitori di telemetria per GPS differenziale) – completamente assenti in Italia – un maggior numero esistente è quello dei radiofari aeronautici
segnali radar, (radar beacon) includono:
Ramark (RAdar MARKer), dispositivo in grado di trasmettere un segnale in codice Morse in maniera continuata o intermittente (in quest’ultimo caso è meno invasivo sul PPI) fornendo il solo rilevamento. Si tratta del primo segnale radar comparso agli inizi degli anni ’50 del XX sec. in USA e UK poi superato dai risponditori radar attivi.
risponditori radar, noti come Racon (RAdar-beaCON), sono dispositivi operanti in banda X (9300-9500 MHz) o in banda S (2900-3100 MHz) o entrambe, in grado di emettere un segnale caratteristico quando viene investito dal fascio radar di una nave. Il segnale, essendo in genere della stessa frequenza del radar di attivazione, si sovrappone al display radar della nave (PPI – Plain Position Indicator) fornendo così rilevamento, portata e identificativo della sorgente.
Oltre a tale risponditore attivo esistono altri di tipo passivo, forniti di elementi metallici costituiti da tre superfici piane tra loro perpendicolari che fungono da riflettore (corner reflector) del segnale radar emesso dall’unità navale (boe radarabili)

Strumenti a riflessione

Il livello di approssimazione degli strumenti a visione diretta, quali erano gli astrolabi, i quadranti, le balestriglie, non consentiva un progresso nella determinazione del punto nave, in particolare della longitudine. La più evidente necessità era quella di poter traguardare insieme l’orizzonte e un astro o contemporaneamente due astri, un’esigenza che intorno al 1660 trovò un primo tentativo da parte dell’olandese Joost van Breen con l’applicazione di un piccolo specchio al traguardo dell’orizzonte di una balestriglia. Tale strumento, di cui rimangono solo i disegni dell’inventore, chiamato spiegelboog o mirror staff, traducibile come balestriglia con specchio, si rivelò utile a tal punto da trovare impiego per circa 100 anni sulle navi olandesi della VOC (Vereenigde Geoctroyeerde Oostindische Compagnie – Compagnia olandese delle Indie orientali).

Successivamente, nel 1684, anche il grande scienziato inglese Robert Hooke (1635-1703) si cimentò realizzando uno strumento fornito di due regoli a compasso di cui uno costituito da un cannocchiale e l’altro corredato di uno specchio. Puntato con il cannocchiale, ad esempio l’orizzonte, era possibile, ruotando l’altro regolo, affiancare alla prima immagine quella riflessa di un altro oggetto. In teoria tutto sembra di facile impiego, in realtà l’immagine riflessa presentava una notevole instabilità particolarmente critica con i movimenti di una nave. Così dopo alcune prove l’inventore decise di abbandonare l’idea di impiegare uno specchio per la misura di angoli.

Il 6 maggio 1731, in una riunione presso la Royal Society di Londra, l’astronomo Edmond Halley (1656-1742), esponendo i suoi studi sui movimenti lunari che lo avevano convinto della loro utilità per la determinazione della longitudine in mare (si trattava del metodo delle distanze lunari), mise in evidenza l’assenza di uno strumento in grado di misurare agevolmente e con precisione le distanze angolari della Luna rispetto ad altri astri. Alla seduta era presente il suo a mico John Hadley (1682-1744), studioso di ottica, che l’anno prima aveva realizzato un quadrante costituito da due specchi che poteva essere la risposta a quanto lamentato da Halley. Così nella successiva seduta del 13 Hadley presentò le sue ricerche descrivendo lo strumento da lui ideato nell’estate del 1730. Halley, che non aveva partecipato alla seduta del 13, venuto a conoscenza dello strumento dell’amico, si ricordò che Newton già nel 1699 aveva descritto uno strumento di misura quale miglioramento del quadrante di Davis.

In verità Newton, caratterialmente motivato solo dai suoi studi teorici e disinteressato a dare conoscenza pubblica delle sue invenzioni, aveva descritto un quadrante a riflessione in un documento che aveva inviato ad Halley che stranamente lo aveva dimenticato e che comparirà solo dopo la morte dell’astronomo nel 1742. Il documento, corredato anche di un disegno dello strumento (quello da noi riprodotto), fu letto alla riunione della Royal Society il 28 ottobre di quell’anno. Ritornando al 1731, Hadley, incoraggiato dall’amico, dedicò diversi mesi al perfezionamento dello strumento passando da una disposizione orizzontale ad una verticale più maneggevole, ottenendo quello che prese il nome di ottante, così detto per avere il lembo, il bordo dell’arco su cui sono riportati i segni della graduazione, ampio 45°, l’ottava parte di un cerchio (360/8 = 45°).

Le volvelle nell’insegnamento della navigazione

La volvella, un termine derivato probabilmente dal latino volvere, ruotare (non a caso fu anche la denominazione attribuita alla primitiva bussola), è il nome di particolari artifici costituiti da uno o più dischi di vario materiale, girevoli intorno a un perno, impiegati per svariati scopi, come prodotto ludico, ausilio didattico, come abaco.

Comparse nel Medioevo, la maggiore diffusione delle volvelle si ebbe con l’avvento della stampa (1455), soprattutto nei testi con contenuto “scientifico” (inteso non nell’uso moderno) che nel ‘500 e ‘600 erano ricchi di illustrazioni capaci di estendere e completare quanto veniva trattato dall’autore. Tipicamente di carta o pergamena, la volvella era fissata a una pagina del libro che la conteneva ovvero veniva lasciato al lettore il compito di ritagliarla e costruirla.
Gli argomenti trattati di particolare interesse furono quelli di Cosmografia, un termine risalente alla seconda metà del ‘300, capace di coniugare la geografia con l’astronomia sferica, la parte dell’astronomia indirizzata allo studio delle posizioni apparenti e dei moti dei corpi celesti, con cui apprendere quelle nozioni utili a compilare oroscopi e predire gli effetti delle eclissi solari e lunari sulla salute dell’uomo.

Con le esplorazioni di nuove terre e di nuovi popoli si ebbe un particolare interesse verso l’astronomia da parte di quei lettori (cresciuti con l’avvento della stampa), spesso autodidatti soprattutto nella matematica, desiderosi di accrescere le basi teoriche della navigazione celeste per sentirsi più partecipi delle esplorazioni di regioni del mondo ancora sconosciute.
Così astronomi come l’inglese Johannes de Sacrobosco (1195-1256), il tedesco Petrus Apianus (1495-1552) e l’olandese Gemma Frisius (1508-1555) pubblicarono testi divulgativi di Cosmografia, inserendo diagrammi, illustrazioni e strumenti di carta, appunto le volvelle.

Le immagini qui riportate, tratte dal Cosmographicus liber (1524) di Apianus, riguardano una volvella quale ausilio didattico nella comprensione del notturlabio, indicato come Instrumentum syderale, con cui determinare l’ora di notte. Nel testo l’autore si rivolge in maniera diretta a un pubblico autodidatta offrendo loro, attraverso alcuni dispositivi mobili, la possibilità di compiere autonomamente semplici osservazioni astronomiche. Sotto l’aspetto didattico ed editoriale si trattò di un’idea vincente a tal punto che i metodi didattici di Apianus trovarono un seguito nei primi testi dedicati alla formazione dei marinai e piloti come il Breve compendio de la sphera y de la arte de navegar (1551) dello spagnolo Martín Cortés (1510-1582), un umanista con scarsa esperienza di navigazione e il più completo Arte de navegar (1545) del cartografo e cosmografo reale spagnolo Pedro de Medina (1493-1567).

Clessidra nautica

La clessidra è un dispositivo di misura del tempo di passaggio per caduta di acqua o sabbia tra due ampolle di vetro.
Anticamente noto come clepsidra, termine di origine greca la cui etimologia significa dedurre acqua, essa trovò impiego in epoca classica per segnare lo scandire del tempo in particolari circostanze come turni di guardia e nell’attività forense. Quando poi la sabbia sostituì l’acqua tali orologi furono detti clepsamie, un termine ormai scomparso. In inglese le clessidre sono indicate genericamente come hourglass e poiché quelli a sabbia hanno in effetti soppiantato quelli ad acqua il termine più diffuso nella lingua anglosasone è sandglass.

A causa della fragilità del vetro delle ampolle, non ci sono pervenuti esemplari antecedenti il XVI secolo, mentre rappresentazioni iconografiche ad oggi catalogate si riferiscono al IV secolo. Una successiva testimonianza si ritrova solo nel ‘300 nell’Allegoria del Buon Governo (1338-1339) di Ambrogio Lorenzetti, un affresco della Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena.

Invece le prime notizie documentate della presenza sulle navi di una clessidra (marine sandglass) si ritrovano negli inventari di bordo di unità del XIV secolo, ma con molta probabilità erano in uso già molto tempo prima.
Ne esistevano di varie dimensioni e quindi diverso intervallo e diversa accuratezza e quindi costo.
Vi erano clessidre da 4 ore, alte anche 60 cm, da mezz’ora di circa 30 cm e quelle da mezzo minuto e anche meno, di circa 12 cm.
L’accuratezza dipendeva sia dalla precisione di costruzione sia , soprattutto, dal tipo di sabbia impiegata. Limatura di ferro o guscio d’uovo in polvere, erano le sostanze delle clessidre più economiche, molto sensibili alla salsedine e all’umidità, mentre gli orologi più accurati prevedevano polvere di marmo macinata finemente in un mortaio, quindi bollita nel vino, essiccata, rimacinata e setacciata nove o dieci volte.
In ogni caso la precisione era piuttosto scarsa tanto da ricorrere alla media di due o tre clessidre girate contemporaneamente e non mancarono tentativi di miglioramento come quello di Daniel Bernoulli (1700-1782) di una clessidra sferica con fori distribuiti uniformemente allo scopo di avere uno scorrimento della sabbia il più uniforme possibile anche con diverse inclinazioni della nave.

La clessidra da mezz’ora, posta di lato alla bussola, veniva prontamente voltata dal timoniere. Otto ampollette, così era chiamato tale orologio (in igl. glass), costituivano una guardia (quattro ore). Al termine di ogni mezz’ora era anche rilevato e segnato sul giornale di chiesuola quelli che nell’800 erano detti arie di vento, una delle trentadue divisioni della rosa dei venti per poter calcolare la rotta.
Invece le ampollette più piccole da 30 s e anche meno erano impiegate per valutare la velocità della nave, un dato importante quanto conoscere la rotta indicata dalla bussola, informazioni che, insieme alla stima dello scarroccio e agli effetti delle correnti, permettevano di ottenere il punto stimato (dead reckoning).
Per una misura precisa della velocità erano impegnati due marinai, sincronizzati con opportuni comandi vocali: mentre uno controllava lo scorrere della sabbia l’altro contava lo scorrere dei nodi della sagola della barchetta filata fuori bordo.

L’informazione di velocità veniva quindi annotata, insieme agli altri dati di navigazione, sul giornale di bordo (logbook in ingl. tanto che la clessidra impiegata era detta log glass).

Tra le espressioni marinaresche che fanno riferimento alla clessidra vi era quella dei timonieri che mangiavano la sabbia quando per andare a mangiare o a dormire giravano l’ampolletta prima del tempo.

Notturnale – orologio notturno

In passato la misura dello scorrere del tempo era ottenuta principalmente con la clessidra che nell’arco della giornata doveva essere sincronizzata con l’ora locale astronomica, quella indicata dal Sole di giorno o dalle stelle di notte.
Di giorno, se il cielo non era coperto, si ricorreva al passaggio al meridiano del Sole, mentre di notte si impiegava un orologio notturno noto come notturlabio, notturnale in italiano, nocturnal, nocturne in inglese o nocturlabe in francese.

La prima descrizione dello strumento si deve al maiorcano Raimondo Lullo (1232-1316) che lo definisce astrolabium nocturnum o sphaera horarum noctis, ma il suo maggiore impiego si ebbe con il ‘500, soprattutto nel Mediterraneo, per essere poi abbandonato con l’avvento del cronometro marino intorno alla metà del XVIII secolo.

Comunemente fatto di ottone o legno, quest’ultimo più diffuso per il minore costo, consisteva di tre parti: un cerchio più grande dotato di manico per sostenerlo, fornito lungo il bordo dei mesi e giorni dell’anno; un cerchio più piccolo riportante le ore, chiamato volvella, e un regolo chiamato braccio o alidada. Volvella e braccio erano tenuti insieme, con la possibilità di ruotare, al disco più grande da un perno o rivetto centrale dotato di foro attraverso il quale veniva traguardata la Polare.

Numerosi furono i tipi prodotti, da quelli in cui la volvella riportava soltanto le ore notturne o era suddivisa in due gruppi di 12 ore, in qualche modello con i segni delle 12 individuabili al tatto per facilitarne il riconoscimento notturno. Il disco primario poteva includere, come in molti notturlabi del ‘500, anche una scala dei 12 segni dello Zodiaco e, a conferma di un secolo di superstizioni, i costruttori non disdegnavano di annotare giorni buoni e giorni cattivi. Non era rara la presenza di un secondo cerchio situato nella parte posteriore dello strumento sul quale erano disegnate alcune costellazioni come un planisfero.

Il principio di base del notturlabio è il moto apparente nelle 24 ore delle costellazioni intorno al polo, individuabile approssimativamente con la Polare, che abbiano però la caratteristica di non tramontare mai alla latitudine dell’osservatore, cioè siano circumpolari.
Dopo aver posizionato l’indice della volvella al giorno di osservazione, il navigante, mentre puntava la Polare attraverso il foro centrale, allineava il braccio secondo la linea Polare-Kochab, la seconda stella più luminosa della costellazione dell’Orsa Minore, circumpolare già alla latitudine di 15° N. L’ora veniva quindi letta dalla posizione assunta dal braccio sulla volvella. Nell’evoluzione comparvero notturnali con la volvella fornita di doppio indice per permettere la misura anche con l’allineamento della coppia di stelle Dubhe e Merak dell’Orsa Maggiore, circumpolari da 33° N.
L’impostazione del giorno di osservazione era dovuto alla necessità di sincronizzare le stelle prese come riferimento, ad esempio le guardie Dubhe e Merak, con l’orario del Sole. Infatti mentre l’ascensione retta, una delle due coordinate celesti indipendenti dal moto della sfera celeste e dalla posizione dell’osservatore, per le stelle varia pochissimo nel tempo, per il Sole, a causa del moto di rivoluzione della Terra, varia nell’arco dell’anno.
Così esiste un periodo (inizi di settembre per l’Orsa Maggiore e novembre per l’Orsa Minore) in cui le stelle passano al meridiano superiore a mezzanotte, cioè quando il Sole è contemporaneamente all’antimeridiano. In tale periodo l’osservatore può valutare le ore prima e dopo la mezzanotte dalla posizione delle guardie rispetto al meridiano. Dopo un mese il passaggio al meridiano anticiperà di 360°/12 mesi = 30°, pari a 2 ore, mentre dopo 15 giorni l’anticipo sarà di 1 ora.

A un valido principio teorico si contrapponevano diverse cause di errore tra cui le difficoltà di traguardare dal ponte di una nave in movimento la Polare e contemporaneamente prendere l’allineamento delle stelle con l’alidada e per l’imperfezione dei riferimenti sui cerchi dello strumento. Nonostante ciò la maggior parte dei piloti erano in grado di utilizzare il notturlabio con un errore sulla misura del tempo di +/- 15 minuti.

Quadrante Davis – 1594

John Davis (c.a. 1550-1605) fu un navigatore inglese che nel 1585, nel trovare un passaggio occidentale per l’Asia (il noto passaggio a nord ovest), dopo 50 anni dal francese Jacques Cartier (1491-1557) che non si spinse a latitudini oltre lo stretto di Belle Isle, tra la penisola del Labrador a nord e l’isola di Terranova (Newfoundland) a sud, giunse con due piccole navi, il Sunshine di 50 ton e il Moonshine di 35, a circa 70° nord, scoprendo, a sud ovest della Groenlandia, lo stretto che porta il suo nome.

Davis è principalmente noto per aver concepito uno strumento di navigazione con cui era possibile, a differenza dell’astrolabio e della balestriglia, misurare l’altezza del Sole senza osservarlo, prevenendo così i conseguenti problemi visivi. Lo strumento, presentato nella sua opera The Seaman’s Secret del 1594, ebbe per molti anni le denominazioni più diverse: backstaff (per sottolineare la misura effettuata con le spalle al sole), crossstaff, quadrante inglese o quadrante nautico, creando confusione con altri strumenti di uguale denominazione e, finalmente 80 anni dopo la morte del suo autore, quadrante di Davis (Davis quadrant).

Nella versione più evoluta era costituito da due settori circolari graduati di diverso raggio con centro all’estremità anteriore dell’asta, dove trovava posto un traguardo dell’orizzonte; quello di raggio maggiore, il settore di osservazione (sight arc), misurava in genere 30°, mentre quello di raggio minore, il settore dell’ombra (shadow arc), misurava 60° (per un totale di 90° da cui la caratteristica di quadrante).
L’osservatore, con le spalle al Sole, tenendo verticale lo strumento, regolando i mirini scorrevoli sui due archi faceva in modo che il sottile raggio di Sole, proveniente dal mirino del settore d’ombra, coincidesse con la linea dell’orizzonte vista dagli altri mirini. Sommando i valori letti in corrispondenza dei mirini dei due settori ricavava direttamente la distanza zenitale (il complemento dell’altezza dell’astro) che per il sole al meridiano (in culminazione) corrisponde alla latitudine del luogo, dopo averla corretta della declinazione alla data di osservazione. Realizzato in legno con incastri che davano robustezza e stabilità, fu integrato, agli inizi del ‘700, con un sistema ottico capace di concentrare i raggi luminosi per una migliore precisione di misura e per facilitare le osservazioni anche in giornate di sole velato.
In effetti tale strumento, che si affiancava agli altri strumenti a visione diretta, subì miglioramenti tecnologici fino agli inizi del ‘700, un progresso tanto importante da rimanere in uso anche dopo l’invenzione del primo strumento a riflessione, l’ottante (entrato in uso intorno al 1750).
Il capitano Davis morì ucciso dai pirati giapponesi a Bintang, presso Singapore.

Balestriglia, antico strumento nautico

Noto in inglese come cross staff, in francese arbalestrille e balestilla in spagnolo, da cui l’equivalente termine italiano, fu uno strumento astronomico descritto per la prima volta nel 1328 dall’astronomo ebreo catalano Levy Ben Gerson (1288-1344), tanto da essere chiamato dai cristiani anche bastone di Giacobbe (Jacob staff in ingl.). Fu inizialmente impiegato nelle osservazioni dei fenomeni celesti: l’astronomo tedesco Johannes Müller (1436-1476), meglio conosciuto oggi come Regiomontano, lo utilizzò per misurare il diametro di una cometa comparsa nel 1472 che 210 anni dopo sarà conosciuta come cometa di Halley.

Introdotto sulle navi nella prima metà del ‘500, ad opera dei portoghesi che la chiamavano tavoletas da Índia, facendoci supporre una sua origine orientale, consisteva di un’asta di olmo o bosso a sezione rettangolare lunga 1,5-1,8 m, fornita di una gradazione, su cui poteva scorrere una traversa, il martello, la cui estremità superiore serviva a traguardare un corpo celeste mentre con l’estremità inferiore veniva traguardato l’orizzonte.

In principio l’asta era fornita di un solo martello poi, per poter ridurre la lunghezza del bastone al fine di rendere più stabili le osservazioni su una nave in movimento, lo strumento venne accorciato e corredato fino a 4 traverse, dette dei 10°, 30°, 60° e 90°, scelte in relazione alla massima ampiezza angolare da misurare.

Con il sole si poteva impiegare la tecnica di far scorrere la traversa fino a proiettare l’ombra della sua estremità superiore sul martello più piccolo fissato all’estremità inferiore dell’asta. In tal modo si evitava di rimanere troppo a lungo ad osservare direttamente l’astro con conseguenti immaginabili danni alla vista. Qualche autore consigliava anche l’uso di un vetro fumè o di traguardare il lembo superiore dell’astro apportando una correzione di mezzo diametro apparente (15″).

Come qualunque strumento di misura anche la balestriglia è affetta da errori, tra cui quello noto in fisica come errore di parallasse, posto in evidenza dal matematico e astronomo inglese Thomas Harriot (1560-1621), amico di Sir Walter Raleigh (1552-1618), navigatore, corsaro e poeta inglese. L’errore è dovuto al diverso punto di vista che si può assumere nell’osservare la stella nell’atto della misura, come quando la traversa non è perfettamente verticale (in una bilancia con ago, ad esempio, quando la lettura non è effettuata verticalmente all’ago). Un altro errore dipendeva dalla necessità di ottenere contemporaneamente l’allineamento del sole e dell’orizzonte.

La principale limitazione era quella di non essere utilizzabile se l’altezza del sole o della stella era inferiore a 20 ° o superiore a 60 °. Ciò significava che il bastone di Giacobbe era inutile nella fascia equatoriale compresa tra 20 ° di latitudine nord e 20 ° di latitudine sud in qualsiasi periodo dell’anno a causa dell’elevata altezza del sole.
In ogni caso la balestriglia rimase in uso per quasi tutto il ‘700.

Quadrante nautico

Il quadrante, detto così per la sua forma di quarto di cerchio, la cui origine si fa risalire all’epoca dei Caldei e Babilonesi (IX sec. a. C.), fu impiegato per misurare l’altezza di un astro o la distanza angolare tra due corpi celesti. Tolomeo (I- II sec. d. C.) lo descrive nel suo Almagesto e a quanto pare era lo strumento già impiegato da Ipparco di Nicea (II sec. a.C.) ed Eratostene (III sec. a.C.) nelle loro osservazioni astronomiche. Strumento fondamentale dell’astronomo dell’antichità era fisso e spesso di grandi dimensioni.
Una versione più semplice fu introdotta a bordo solo nel ‘300, importata in Spagna dagli arabi, anche se i quadranti più antichi portati alla luce dai ritrovamenti archeologici sono databili intorno al 1460. In tali strumenti non appaiono le tipiche suddivisioni in gradi dei quadranti successivi (1480) ma piuttosto i valori delle latitudini delle destinazioni più comuni.
A tal proposito occorre tenere presente che solo all’inizio del ‘400 i portoghesi scoprirono che l’altitudine del sole a mezzogiorno o della stella polare di notte poteva essere convertita, con una semplice operazione matematica, in gradi di latitudine terrestre, l’angolo variabile tra 0° all’equatore e 90° al Polo Nord. Nel 1415 gli astronomi insegnarono ai piloti, inviati dal principe Enrico il Navigatore alle scoperte oltre il Mediterraneo, come usare il quadrante per ricavare la latitudine in mare.

Quello di bordo era uno strumento essenziale, naturalmente mobile potendo ruotare così da traguardare l’astro, attraverso due mirini posti su un lato, leggendo poi il valore dell’angolo di altezza rispetto all’orizzonte dall’indicazione fornita da un filo a piombo sulla parte curva del settore graduato da 0° a 90°. Fu proprio la sua semplicità a favorirne la diffusione a bordo fino a tutto il ‘400, ma anche oltre: Colombo lo descrive alla data del 23 febbraio del 1493 del giornale di bordo del suo primo viaggio. Si comprende che la precisione dello strumento era influenzata, tra l’altro, dalle sue dimensioni e delle inevitabili oscillazioni del filo a piombo causate dal vento e dal movimento della nave. Non era raro che una seconda persona eseguisse la lettura mentre la prima si concentrava sull’osservazione.

Le lune di Giove

Nel 1610 Galilei scoprì che intorno a Giove ruotano quattro lune che presentano i tipici fenomeni dei satelliti.
Dopo successive osservazioni ebbe chiara la possibilità di utilizzare quei fenomeni per calcolare la longitudine in mare aperto in sostituzione delle rare eclissi di Luna, un metodo risalente a Ipparco applicabile solo sulla terraferma.

L’esigenza di determinare la longitudine a bordo di una nave era la diretta conseguenza dell’intensa crescita delle navigazioni oceaniche, un’esigenza di tali proporzioni da aver spinto diverse nazioni ad offrire cospicui compensi a chi avesse fornito un metodo praticabile ed efficace per la sua determinazione in mare aperto.

Galilei intraprese lunghe trattative prima con gli spagnoli e poi con gli olandesi, ma l’impraticabilità del metodo a bordo di una nave in movimento, per cui lo scienziato pisano ideò un particolare elmetto dotato di cannocchiale, il celatone, che comunque si rilevò inadatto, non trovò applicazione in mare. Il metodo comunque fu applicato per molti anni dalla morte di Galilei nel 1642 per il miglioramento della cartografia, un passo importante e necessario all’introduzione del cronometro marino alla metà del ‘700.

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