Carte meteorologiche

Oggi disponiamo di numerose rappresentazioni grafiche delle condizioni meteorologiche.
Giornali, emittenti televisive, internet forniscono grafici, più o meno ricchi di informazioni, soprattutto attraverso simboli non sempre noti a tutti, con i quali poter conoscere lo stato attuale e futuro del tempo meteorologico.

Pioniere di tale approccio allo studio del tempo atmosferico (per il quale gli inglesi hanno un termine ben definito weather, diverso dal tempo ordinario che è time) e alla sua rappresentazione grafica è stato lo scienziato britannico Francis Galton (1822-1911) il cui contributo scientifico ha interessato numerosi campi, dalla climatologia alla matematica, ma fu anche esploratore, geografo e antropologo. Nella sua opera Meteographica, or Methods of Mapping The Weather, del 1863 (scaricabile dal sito a lui dedicato: galton.org ), Galton presentò diversi diagrammi tra cui quelle da lui definite “synchronous charts”, come le mappe riportate qui, indicanti le condizioni del tempo, la pressione barometrica, le direzioni del vento in un dato momento e per una data area geografica dell’Europa.

Fu così che Galton elaborò la prima carta meteorologica pubblicata sul The Times, il 1 aprile 1875 in cui mostrava il tempo del giorno prima, il 31 marzo.
Insomma quella di Galton era un’intelligenza prolifica degna di suo cugino Charles Darwin.

Alisei

Venti a carattere regolare della zona della Terra compresa fra 30° di latitudine nord e 30° di latitudine sud.

Già nel XV sec., durante i viaggi lungo la costa occidentale dell’Africa, i portoghesi, primi tra gli europei, riconobbero la loro importanza nelle rotte di navigazione. Non a caso gli inglesi li chiamano trade winds dove trade ha l’antico significato di percorso (oggi di commercio) e winds, venti.

Una nave a vela, lasciato lo stretto di Gibilterra, si trova ben presto nella corrente delle Canarie che la spinge a sud-ovest lungo la costa africana. Raggiunge gli alisei di nord-est che la spingono anche a sud-ovest. Se la navigazione inizia con la fine dell’estate incontra gli alisei prima poiché i sistemi eolici si spostano da nord a sud con le stagioni. Il problema era tornare di nuovo senza dover fare continui e faticosi bordi. La soluzione era affrontata da un modo di navigare che i portoghesi chiamarono la volta do mar largo (o semplicemente la volta do mar) in cui la nave navigava per nord-ovest al traverso, prima negli alisei e successivamente nei venti occidentali (westerlies) così da guadagnare terra in Europa, passando per le Azzorre.
Nell’Oceano Pacifico sia gli alisei orientali sia quelli occidentali furono riconosciuti dagli europei solo nel 1565 con la spedizione in cui era consigliere nautico il frate spagnolo Andres de Urdaneta (1498 – 1568).

Nella navigazione a vela, durante le scoperte geografiche, l’attenzione ai fenomeni meteorologici rivestiva un’importanza notevole, necessaria a individuare le rotte migliori e sicure. Tutto ciò portò a una vasta raccolta di osservazioni nel corso dei secoli XVI e XVII permettendo così agli studiosi di approfondire le conoscenze dei fenomeni atmosferici. Nel 1686 il celebre astronomo inglese Edmund Halley (1656 – 1742), dallo studio dei dati disponibili, integrati con le informazioni ricavate in una sua spedizione all’isola di Sant’Elena, pubblicò una carta degli alisei (e una dei monsoni) insieme a un saggio in cui identificava nel riscaldamento solare la causa dei moti atmosferici.
Spetterà a un avvocato inglese con la passione della meteorologia, George Hadley (1686-1768), fornire, circa 50 anni dopo nel 1735, nell’articolo “Concerning the Cause of the General Trade Winds”, una descrizione del processo dinamico degli alisei partendo dalle ipotesi di Halley, che presentò poco dopo alla Royal Society di Londra.
Il suo modello, in cui per la prima volta attribuiva alla rotazione della Terra la direzione verso occidente degli alisei, comunque rimase a lungo sconosciuto fino a quando, nel 1793, lo scienziato inglese John Dalton (1766 – 1844) ne riconobbe il valore.
Il modello, noto come cella di Hadley, appartenente alla circolazione generale dell’atmosfera , si può così riassumere: dai centri di alta pressione presenti ai tropici le masse d’aria si dirigono verso l’equatore, deviando verso ovest per effetto Coriolis, richiamate da un movimento verticale di aria umida fortemente riscaldata che forma grandi nubi convettive cumuliformi accompagnate da rovesci, groppi e tempeste.

Tale zona, una fascia di circa 50 km di larghezza, detta zona di calme equatoriali per la presenza di venti deboli (i moti verticali non sono soggetti all’effetto Coriolis, il cui effetto è trascurabile all’equatore), posta più a nord dell’equatore geografico (tanto da definirsi equatore termico o climatico), è anche nota nella terminologia marinara inglese (a partire dalla prima metà dell’800) come doldrums, (probabilmente combinazione di dull, noioso – per assenza di venti utili e tantrum, capricci per le condizioni meteorologiche), mentre dagli anni 40 del ‘900, ad opera dell’Istituto Meteorologico di Bergen, in Norvegia, che tanto sviluppo diede alla meteorologia, ha assunto il nome scientifico di Inter-Tropical Convergence Zone, (ITCZ, pron. “itch”), Zona di convergenza intertropicale.
L’aria in salita nella Zona, giunta ai confini della troposfera (all’equatore particolarmente spessa, tra i 10 e 18 km) persa l’umidità, divenuta più pesante scende di quota dirigendosi verso latitudini più elevate (tale movimento d’aria è detto dei contralisei) per ritornare sulla superficie terrestre in corrispondenza dei tropici, a circa 30° N o S (rispettivamente per gli alisei settentrionali e meridionali), che gli inglesi chiamano horse latitudes, una espressione sulla cui etimologia vi sono diverse interpretazioni. Quella più plausibile riferisce che a tali latitudini vi sono correnti che possono favorire il moto delle navi, alla maniera di un cavaliere a cavallo.

Boe meteorologiche

La necessità di trovare un’alternativa alle costose navi meteorologiche spinse gli Stati Uniti a sviluppare, a partire dagli anni 50 del ‘900, una boa meteorologica da porre in sostituzione delle navi che pian piano venivano dismesse.

Furono così prodotte le NOMAD, acronimo di Navy Oceanographic Meteorological Automatic Device, boe automatizzate impiegate, in condizioni marine estreme, per il monitoraggio dei parametri meteorologici, oceanografici e della qualità dell’acqua. Costituite da uno scafo in alluminio lungo 6 metri, dalla forma simile a quella di una barca, vengono ancorate su fondali anche di oltre 3000 metri. Attualmente sono attivi per USA e Canada circa 20 unità. Alle NOMAD si sono aggiunte successivamente altre boe di tre, dieci e dodici metri di diametro, ormeggiate o ancorate e più recentemente particolari boe mobili, note come drifter, sfere di materiale sintetico del diametro di una cinquantina di centimetri, fornite di ancora galleggiante per contenere la velocità di spostamento. Tutte queste boe trasmettono i dati tramite comunicazione radio satellitare.

Ogni anno, navi oceanografiche, petroliere, aerei e persino barche a vela calano in mare qualche centinaio di nuovi drifter che vagano alla deriva in tutti i mari del mondo come si può notare dalla carta delle posizioni dei drifter a luglio del 2019.